2.2 Dal gioco degli scacchi e dal numero
degli angeli all’infinità di Dio e dei numeri
Anche l’invenzione del gioco degli
scacchi fu dai Greci attribuita a Palamede; a questa tradizione
si ispira un famoso mosaico del pavimento della cattedrale di Pesaro,
ove sono raffigurati appunto Palamede e Odisseo che giocano a scacchi
( fuori dal mito, l’ipotesi più accreditata pone il luogo
d’origine degli scacchi in India , mentre solo più tardi
vennero importati in Persia, anche se la parola scacco deriva dal persiano
Shãh << Re >>, voce
diffusa dalla cultura araba e giunta all’italiano probabilmente
per tramite del provenzale e catalano antico escac
). La leggenda di origine orientale attribuisce l’invenzione degli
scacchi a Sissa Nassir: il re di Persia, a cui ne fece dono,
entusiasta, gli chiese cosa desiderasse per ricompensa; la richiesta
di Nassir fu solo apparentemente modesta: chiese infatti un chicco di
riso per la prima casella, per la seconda il doppio, per la terza il
doppio della seconda, per la quarta il doppio della terza, e così
via, ma il conto del numero dei chicchi di riso non è presto
fatto e conduce ad un numero davvero grande, al punto che, data l’impossibilità
per il sovrano di mantenere la promessa, sentendosi preso in giro, anziché
premiarlo, fece mozzare la testa al povero Nassir. E’ verosimile
ritenere che nei versi:
Lo incendio lor seguiva ogni
scintilla;
Ed eran tante,che ‘l numero loro
Più che il doppiar degli scacchi s’immilla.
[Par, XXIII, 91-93] |
che descrivono il tripudio e lo splendore
dei cori degli angeli e la loro numerosa moltitudine, Dante alluda proprio
a questa leggenda.
Dante conosceva l’opera “Etymologiarum
sive originum libri XX” dell’enciclopedista Isidoro,
vescovo di Siviglia (570-636) (1),
che nel libro XIII tratta della storia dei giochi, ed anche i testi
di Beda il venerabile (674-735) (2),
che trattano argomenti sacri e profani, tra i quali anche il gioco.
Dante doveva anche avere un’idea, quanto meno, sul risultato del
calcolo che si ottiene sommando le potenze di 2 crescenti da 0 a 63,
cifra che indica il numero dei chicchi di riso della leggenda : 20+21+22+23+…….261+262+263
=184 467 440 737 095 551 615, uno sproposito di numero che con il sistema
di numerazione romana sarebbe stato ben difficile, o forse impossibile,
ricavare. Il sistema di numerazione indo-araba importato in Europa da
Leonardo Fibonacci, con la sua opera “ Liber abaci “( 1202
), che fece epoca e che venne usata per lungo tempo, lo rese possibile.
Paolo dell’Abaco ( 1329- 1367/68 ), figlio di Piero anch’egli
maestro d’abaco, ebbe tra i suoi discepoli Jacopo, uno dei quattro
figli di Dante, che a sua volta, appassionatosi al calcolo, frequentò
Paolo per apprendere l’uso dell’abaco e dello stilo.
L’affermazione di Dante circa il numero degli angeli, nell’interpretazione
dei versi, può essere intesa in tre differenti modi, anche se
tutti conducono ad un numero enorme:
A ) Se la lettura è : ‘l
numero loro è di molte migliaia più grande di
quello che si ottiene con il doppiar degli scacchi,
il numero rimane imprecisato ma immaginabile più grande non
solo di 184467440737095551615, ma più grande di qualsiasi numero
grande, potendosi aggiungere quante si vogliono migliaia, in una sorta
di anelito, tramite un ”potenziale” infinito potenziale
degli angeli, all’infinito divino in atto. numero
loro = numero che si ottiene con il doppiar
degli scacchi + molte altre migliaia.
B ) Se la lettura è: è ‘l
numero che s’immilla, s’intende
allora che è la sua numerosità ad esser costituita da
un numero di migliaia tale da superare in quantità quello che
si ottiene con il doppiar degli scacchi.
Avremo : numero loro = tante
volte mille da risultare > di quello ricavabile col doppiar degli
….. con lo stesso effetto del caso A.
C ) Se la lettura è: ‘l numero
loro si ottiene utilizzando il 1000 (immillando) invece del
2 (raddoppiando) nel rifare il noto calcolo dei chicchi di riso, allora
otterremmo come risultato: 10000+10001+10002+10003+……….100062+100063(
dire 100063 è come dire 10189); il risultato
è “ enormemente enorme “ e tuttavia finito.
Che Dante sapesse fare questo calcolo o ne conoscesse il risultato
mi sembra difficile da decidere. E’ forse più facile
comprendere il perché del ricorso, da parte di Dante, a questa
similitudine anziché all’aggettivo infinito
per indicare il numero degli angeli.
Almeno tre plausibili ragioni possono spiegare
questa scelta :
- Una prima ragione è che
la mente si sofferma e stupisce nell’immaginare, pur non sapendolo
forse calcolare ( ma a maggior ragione in questo caso), un numero
così enormemente grande, che, per quanto finito, può
dare una percezione concreta della grandiosità della quantità
di quelle intelligenze, più di quanto non lo afferri se indicato
con l’aggettivo infinito, dal momento
che l’indefinibilità del termine lo rende più
sfuggente e meno adatto a far soffermare la mente sulla grandiosità
del numero.
- Una seconda ragione è che Dante,
con il numero espresso tramite il 1000 o con le sue potenze, ben adatta
la similitudine al suo intento di attenersi, sul numero delle intelligenze
angeliche, alla dottrina della Chiesa, che “ dice
crede e predica quelle nobilissime creature quasi innumerevoli
( Conv. II, V, 5 )”; il numero deve essere quasi (!)
così grande che non si riesce a contare, non infinito quindi.
Inoltre il ricorso al 1000 può anche essere dovuto all’
“ Erat numerus eorum millia millium
“ dell’Apocalisse, V, 11.
- Una terza ragione si può ricavare da quanto si legge nella
Summa Theologica di Tommaso ( I, q. CXII, 4 ) : “ Moltitudo
angelorum trascendit omnem materialem multitudinem “;
nei versi, il neologismo dantesco s’immilla
è ben più potente dell’effetto del doppiarsi,
che già basterebbe a indicare un numero che, come racconta
la leggenda di Nassir, non può essere uguagliato da una moltitudine
materiale ( in quel caso, di chicchi di riso; e si pensi, per farsi
un’idea di questo numero, che quello che esprime la moltitudine
di tutte le lettere di tutte le parole di tutti i libri del mondo
non basterebbe per uguagliarlo ).
(1) Dante pone Isidoro nel
Paradiso nella prima corona dei beati. (up)
(2) Dante pone Beda nel
Paradiso insieme ad Isidoro. (up)
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