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Sezione 16: IL NOSTRO E L'ALTRUI MESTIERE
La letteratura e la chimica

Giuseppe O. Longo
Il fuoco completo    

La mia stanza è situata ad uno dei piani più alti di questo immenso ospedale. Io mi posso ancora alzare, e qualche volta lo faccio, ma sempre più spesso, per guardare dalla finestra lo spettacolo della nostra smisurata Capitale, mi servo del sistema di specchi orientabili di cui è fornita ogni camera. Tra qualche settimana, o qualche anno, questo sarà l'unico modo che avrò per vedere qualcosa del mondo esterno. La nostra Capitale è molto vasta e bella, adagiata com'è tra le colline piene di ville e di giardini e la pianura popolosa, densa di fabbriche e opifici. Contemplandola da quassù, provo ancora un breve moto di orgoglio ingiustificato e mi dico che è proprio degna dell'Impero che ha conquistato il mondo e gli ha imposto le sue leggi.
I giganteschi monumenti della nostra gloria passata si stagliano cupi contro un cielo inquietato da presagi senza ritorno. Essi sono il segno di una delirante felicità che non è più nostra da quando, giunti sulle soglie vertiginose di un futuro immortale, siamo stati contaminati da questa febbre che ci snerva e ci consuma. E proprio il fuoco completo, che doveva essere il nostro viatico per l'infinito e che doveva imprimere battito possente alle nostre ali, ha invece intaccato le nostre fibre più delicate e ci ha avvolto nelle spire soffocanti e dolciastre di una consunzione fatale.
Condannati ad una crescente inattività, relegati in numero sempre più grande nelle silenziose camere degli ospedali, molti uomini hanno preso a dedicare le loro forze residue a studi inutili e raffinati, a ricerche inconcludenti e complicate. Alcuni ad esempio hanno intrapreso esegesi puntigliose e dottissime di tutta la nostra letteratura - a partire da quella dell'Antico Regno - cercando di individuare i riferimenti, presunti o presumibili, al fuoco completo. A ben considerare, è difficile trovare sensata una simile ricerca. Poiché fu certamente Usinor a scoprire il fenomeno e a sperimentarne gli effetti più semplici e definitivi, io credo che i riferimenti riscontrati da quegli esegeti - quelle poetiche fantasie, quei sogni arbitrari, quegli innocenti atti di fede nelle simmetrie latenti della natura, nelle rispondenze essenziali tra fenomeni e teorie - siano da attribuire piuttosto al fuoco domestico, che da tempo abbiamo imparato a domare, a sfruttare e poi a disdegnare e a respingere. E' vero che vi sono passi che è difficile interpretare a questo modo e quegli esegeti li citano volentieri a sostegno delle loro tesi. Come questo, dell'ilozoista Ducas: "Per questo fuoco io intendo non già un calore violento, tumultuoso, irritante e contrario alla natura, che bruci gli umori e gli alimenti più che cuocerli; bensì un fuoco dolce, moderato e balsamico, il quale, accompagnato da certa umidità affine a quella del sangue, penetri gli umori eterogenei e i succhi destinati alla nutrizione, li attenui, polisca la grossolanità e l'asprezza delle loro parti e infine li riduca a un grado tale di raffinata dolcezza ch'essi si ritrovino appropriati alla nostra natura".
Benché forse non si parli qui del fuoco ordinario, tuttavia non mi pare neppure che si parli del fuoco completo; e oggi possiamo ben dirlo, visti i suoi effetti!
Più significativi mi sembrano essere gli accenni di mi Anonimo, contemporaneo di Ducas, che parla di "velocità traslative delle sequenze caloriche", della "pirosfera che si sfalda e si disintegra nella serie degli effluenti primari e secondari", del "fuoco ultravivente che sale dalle profondità della sostanza, offrendosi con un amore lento e inestinguibile". Ma i frammenti che restano dell'Anonimo sono così scarsi e incoerenti che non è possibile, a mio parere, stabilire se si tratti di necessità filosofemiche o di riflessioni più concrete.
Anch'io, nei mesi che ho passato finora qui all'ospedale, mi sono dedicato un po' a riflettere su questi problemi, e tra l'altro mi sono procurato copia delle esegesi più importanti Benché non pretenda certo che la mia opinione abbia un gran peso, tuttavia mi sembra di poter affermare che, quando Usinor compare sulla scena, del fuoco completo non solo non esista esperienza, ma che non ne esista neppure una teoria; si tratta al massimo di una congettura, meglio direi di una fantasia, o di un sogno del cuore, di un desiderio dell'intelletto. Certo è che furono gli occhi affaticati e ardenti di Usinor a vedere per primi la fiamma silenziosa e bluastra.
Della vita di quest'uomo, scelto dal destino per far maturare il frutto opimo e velenoso che tanto vigore avrebbe dovuto darci e tanto ce ne sottrae, sappiamo solo quanto egli stesso ci racconta nel suo ponderoso trattato Del Fuoco Completo. Usinor nacque a Toledo (in un breve passaggio ce la descrive "odorosa di nascosti giardini nelle sere d'estate, tra il brusio dei vicoli"), vi studiò fisica e medicina, vi fece le sue interminabili esperienze di laboratorio e vi morì in tardissima età, prima vittima della sua stessa scoperta. Dal trattato, la figura di Usinor emerge viva, appassionata, gigantesca Fin dal l'infanzia il fuoco ebbe una parte importante nella sua vita; egli racconta che durante una malattia "il medico buono e solenne veniva al mio capezzale e tranquillizzava la mamma con una parola sapiente. Mi davano uno sciroppo d'erbe aromatiche, io leccavo il cucchiaio. Nell'altra stanza il fuoco brillava nel caminetto, io sentivo la sua presenza viva e vivificante e sapevo che la guarigione mi sarebbe venuta da lui..."
Con gli anni il suo interesse per il fuoco divenne sempre più profondo: "Ero diventato così abile nell'accendere il caminetto che, a casa, questo compito mi venne tacitamente riservato. Anche altrove, se mi capitava di assistere agli inutili tentativi di riattizzare un fuoco languente, intervenivo in modo sapiente e discreto e riuscivo da una sola piccola brage a far divampare grossi ceppi, tra la pensosa meraviglia di tutti. Il fuoco si levava calmo, regolare, brillante; il ceppo ardeva a piccole fiamme, parlava, cantava al mio cuore, volava..."
A poco a poco la vita di Usinor si concentra intorno a questo fenomeno: egli ne vuoI conoscere tutti gli aspetti, vuole legarlo a tutti gli altri. All'università studia la teoria del flogisto e la fluidodinamica dei gas surriscaldati, s'interessa alla circolazione sanguigna, alle pompe di calore e alla combustione organica. Legge naturalmente Ducas e i frammenti dell'Anonimo, ed è forse allora che ha la prima intuizione (ma è la parola giusta?) del fuoco completo.
Si attrezza un laboratorio, che probabilmente non si distingue dalle numerose manifatture d'alchimisti della sua Toledo, e v'inizia una serie pluridecennale d'esperienze, guidate e seguite da rigorose riflessioni, di cui il trattato ci fornisce un resoconto minunuzioso. Sostenuto nella sua prometeica impresa insieme dal ricordo e dalla speranza, solo nelle lunghe notti, con muta pazienza esplora le forme dei recipienti, foggiandoli a nido, a valva, a cratere. Incurante del sonno e della fatica, dimentico della dolcezza e dell'amore, nel suo chiuso antro di legno e di pietra, fra le antiche pergamene, i libri, le bilance, i minerali e la forgia, Usinor insegue il barlume di un sogno.
Davanti alla sua finestrella terrena passano rumorosi viandanti e silenziose stagioni. Nelle rapide sere d'inverno, tra il chiaror delle nevi, o nei pomeriggi fiammeggianti dell'estate, che si prolungano sugli aridi campi intorno alla città, egli si spinge sulle strade impervie del suo immaginoso desiderio, vola per cieli rarefatti e desolati, cercando in un microcosmo lontano, tenue e inebriante l'immagine congetturale del suo vigoroso e abbagliante macrocosmo. Tenta lo zolfo, la malachite, il mogano e il quarzo, l'alcol e la calcite, il mercurio, l'oro e l'acqua forte, lo smeraldo e l'acqua regia, l'ambra, il pirosseno e lo zirconio.
Ed ecco, dopo anni di sforzi, in una notte di marzo che nella vita del mondo è diversa da tutte le altre, la materia lungamente sollecitata apre le piccole invisibili ampolle dove stava rinchiusa la sua più intima essenza, e agli occhi increduli e commossi del vecchio Usinor appare, come un pallido fiore azzurrino, la fiammella esitante da sempre cercata. Egli la contempla a lungo, poi, con un'intuizione che stupisce, annota: "Guardando quel piccolo lume bluastro, oscillante e delicato, sentivo di aver violato un'intimità segreta, di aver forzato meccanismi complessi e puntuali. Avevo spezzato le piccole fiale resistenti in cui, ben divise, erano state da sempre racchiuse sostanze che, forse, non avrebbero mai dovuto mescolarsi. Dal loro contatto ora scaturiva quella fiammella, che era dunque il segno esile equasi insignificante di un atto possente che si consumava nella materia e che la natura aveva vietato. Provavo un orgoglio smisurato e una profonda inquietudine". E più avanti.' "Più di così la materia non avrebbe potuto darmi e questo suo succo essenziale, intimo e proibito, ho voluto chiamarlo il Fuoco Completo. Quella fiammella fredda e azzurrina spingeva la mia anima a riflessioni lontane. Essa ardeva con un crepitio quasi inavvertibile, illuminava appena, lividamente, il noto paesaggio del laboratorio, rendendolo irriconoscibile Toccata con un oggetto qualunque, essa vi aderiva in un contagio effimero ma inestinguibile Questo ardere stabile, prolungato e silenzioso pareva segnare una consunzione interna e duratura, che io avevo innescato in un punto arbitrario anche se forse predestinato del mondo e che ora lentamente si propagava. Era come se tutta la materia avesse cominciato a uscire pian piano da quel piccolo strappo e dilagasse, consumandosi febbrilmente in quella fiamma silenziosa".
Quanto le sue apprensioni fossero giustificate, Usinor poté vederlo, tragicamente, di persona. La fiammella bluastra si estese col tempo a tutto il laboratorio e nonostante la sua cautela egli ne fu contagiato. Nei lunghi anni in cui si consumò il suo martirio indolore, Usinor ebbe modo di dettare una teoria - giudicata più tardi quasi perfetta - del fuoco completo, con la quale concluse il suo trattato. Ne metteva in evidenza i pericoli e ne indicava le meravigliose, esaltanti applicazioni; infine elencava le precauzioni da adottare nel suo impiego.
Quello che accadde dopo si sa. Forse le cautele indicate dal vecchio Usinor non erano sufficienti, forse i vantaggi dell'impiego del fuoco completo e la sua conseguente diffusione rapidissima indussero a una progressiva leggerezza. In numero sempre più grande gli uomini ne furono contaminati e il contagio si trasmetteva dai padri nei figli. Così, nel momento in cui il fuoco completo metteva ai nostri piedi tutta la forza dell'Universo e ci prometteva il fremito inesprimibile della divinità, esso anche minava il nostro essere, fiaccava il nostro vigore, condannava la nostra gente, il nostro Impero, ad una lenta degradazione.
Mi alzo dal letto d'ospedale dove attendo con dolorosa rassegnazione la mia lontanissima fine, mi avvicino alla grande finestra e guardo laggiù all'orizzonte le nostre fabbriche, le immense centrali dove, in antri ciclopici, il fuoco completo lavora per darci l'energia e il caldo di cui sempre più abbiamo bisogno, ora che la nostra forza e il nostro calore di uomini ci stanno abbandonando. In noi serpeggia lo stesso subdolo fiore azzurrino che fa ansimare e ronzare quegli enormi opifici, neri contro il cielo brumoso del tramonto come giganteschi animali che si siano gettati ad aspettare la morte sulle rive di un gran fiume.
Pure, se penso a Usinor, non riesco a provare per lui se non una pena dolcissima, una compassione struggente. Quell'uomo, che aprì con la sua tenace ricerca le bolle velenose del nostro destino, mi appare animato da un afflato presago, come se al di là della sua stessa morte ci fosse l'ansia di un imperioso richiamo, la promessa di un sogno immortale. Interrogando la materia con inquieta pazienza, Usinor assaporava una dolcezza remota, seguiva una vaga insegna di un azzurro tenue e affaticato. E nel fiore che apparve ai suoi occhi smarriti e pensosi certo si estenuava un'ombra dell'azzurro più pallido e rarefatto che solo occhi che lungamente abbiano ricercato possono, a volte, scorgere contro il cielo della sera.


(Il fuoco completo, Faenza: Mobydick, 2000; per concessione dell'Editore)

 

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