La mia stanza è situata ad uno dei piani più alti
di questo immenso ospedale. Io mi posso ancora alzare, e qualche
volta lo faccio, ma sempre più spesso, per guardare dalla
finestra lo spettacolo della nostra smisurata Capitale, mi servo
del sistema di specchi orientabili di cui è fornita ogni
camera. Tra qualche settimana, o qualche anno, questo sarà
l'unico modo che avrò per vedere qualcosa del mondo esterno.
La nostra Capitale è molto vasta e bella, adagiata com'è
tra le colline piene di ville e di giardini e la pianura popolosa,
densa di fabbriche e opifici. Contemplandola da quassù, provo
ancora un breve moto di orgoglio ingiustificato e mi dico che è
proprio degna dell'Impero che ha conquistato il mondo e gli ha imposto
le sue leggi.
I giganteschi monumenti della nostra gloria passata si stagliano
cupi contro un cielo inquietato da presagi senza ritorno. Essi sono
il segno di una delirante felicità che non è più
nostra da quando, giunti sulle soglie vertiginose di un futuro immortale,
siamo stati contaminati da questa febbre che ci snerva e ci consuma.
E proprio il fuoco completo, che doveva essere il nostro viatico
per l'infinito e che doveva imprimere battito possente alle nostre
ali, ha invece intaccato le nostre fibre più delicate e ci
ha avvolto nelle spire soffocanti e dolciastre di una consunzione
fatale.
Condannati ad una crescente inattività, relegati in numero
sempre più grande nelle silenziose camere degli ospedali,
molti uomini hanno preso a dedicare le loro forze residue a studi
inutili e raffinati, a ricerche inconcludenti e complicate. Alcuni
ad esempio hanno intrapreso esegesi puntigliose e dottissime di
tutta la nostra letteratura - a partire da quella dell'Antico Regno
- cercando di individuare i riferimenti, presunti o presumibili,
al fuoco completo. A ben considerare, è difficile trovare
sensata una simile ricerca. Poiché fu certamente Usinor a
scoprire il fenomeno e a sperimentarne gli effetti più semplici
e definitivi, io credo che i riferimenti riscontrati da quegli esegeti
- quelle poetiche fantasie, quei sogni arbitrari, quegli innocenti
atti di fede nelle simmetrie latenti della natura, nelle rispondenze
essenziali tra fenomeni e teorie - siano da attribuire piuttosto
al fuoco domestico, che da tempo abbiamo imparato a domare, a sfruttare
e poi a disdegnare e a respingere. E' vero che vi sono passi che
è difficile interpretare a questo modo e quegli esegeti li
citano volentieri a sostegno delle loro tesi. Come questo, dell'ilozoista
Ducas: "Per questo fuoco io intendo non già un calore
violento, tumultuoso, irritante e contrario alla natura, che bruci
gli umori e gli alimenti più che cuocerli; bensì un
fuoco dolce, moderato e balsamico, il quale, accompagnato da certa
umidità affine a quella del sangue, penetri gli umori eterogenei
e i succhi destinati alla nutrizione, li attenui, polisca la grossolanità
e l'asprezza delle loro parti e infine li riduca a un grado tale
di raffinata dolcezza ch'essi si ritrovino appropriati alla nostra
natura".
Benché forse non si parli qui del fuoco ordinario, tuttavia
non mi pare neppure che si parli del fuoco completo; e oggi possiamo
ben dirlo, visti i suoi effetti!
Più significativi mi sembrano essere gli accenni di mi Anonimo,
contemporaneo di Ducas, che parla di "velocità traslative
delle sequenze caloriche", della "pirosfera che si sfalda
e si disintegra nella serie degli effluenti primari e secondari",
del "fuoco ultravivente che sale dalle profondità della
sostanza, offrendosi con un amore lento e inestinguibile".
Ma i frammenti che restano dell'Anonimo sono così scarsi
e incoerenti che non è possibile, a mio parere, stabilire
se si tratti di necessità filosofemiche o di riflessioni
più concrete.
Anch'io, nei mesi che ho passato finora qui all'ospedale, mi sono
dedicato un po' a riflettere su questi problemi, e tra l'altro mi
sono procurato copia delle esegesi più importanti Benché
non pretenda certo che la mia opinione abbia un gran peso, tuttavia
mi sembra di poter affermare che, quando Usinor compare sulla scena,
del fuoco completo non solo non esista esperienza, ma che non ne
esista neppure una teoria; si tratta al massimo di una congettura,
meglio direi di una fantasia, o di un sogno del cuore, di un desiderio
dell'intelletto. Certo è che furono gli occhi affaticati
e ardenti di Usinor a vedere per primi la fiamma silenziosa e bluastra.
Della vita di quest'uomo, scelto dal destino per far maturare il
frutto opimo e velenoso che tanto vigore avrebbe dovuto darci e
tanto ce ne sottrae, sappiamo solo quanto egli stesso ci racconta
nel suo ponderoso trattato Del Fuoco Completo. Usinor nacque a Toledo
(in un breve passaggio ce la descrive "odorosa di nascosti
giardini nelle sere d'estate, tra il brusio dei vicoli"), vi
studiò fisica e medicina, vi fece le sue interminabili esperienze
di laboratorio e vi morì in tardissima età, prima
vittima della sua stessa scoperta. Dal trattato, la figura di Usinor
emerge viva, appassionata, gigantesca Fin dal l'infanzia il fuoco
ebbe una parte importante nella sua vita; egli racconta che durante
una malattia "il medico buono e solenne veniva al mio capezzale
e tranquillizzava la mamma con una parola sapiente. Mi davano uno
sciroppo d'erbe aromatiche, io leccavo il cucchiaio. Nell'altra
stanza il fuoco brillava nel caminetto, io sentivo la sua presenza
viva e vivificante e sapevo che la guarigione mi sarebbe venuta
da lui..."
Con gli anni il suo interesse per il fuoco divenne sempre più
profondo: "Ero diventato così abile nell'accendere il
caminetto che, a casa, questo compito mi venne tacitamente riservato.
Anche altrove, se mi capitava di assistere agli inutili tentativi
di riattizzare un fuoco languente, intervenivo in modo sapiente
e discreto e riuscivo da una sola piccola brage a far divampare
grossi ceppi, tra la pensosa meraviglia di tutti. Il fuoco si levava
calmo, regolare, brillante; il ceppo ardeva a piccole fiamme, parlava,
cantava al mio cuore, volava..."
A poco a poco la vita di Usinor si concentra intorno a questo fenomeno:
egli ne vuoI conoscere tutti gli aspetti, vuole legarlo a tutti
gli altri. All'università studia la teoria del flogisto e
la fluidodinamica dei gas surriscaldati, s'interessa alla circolazione
sanguigna, alle pompe di calore e alla combustione organica. Legge
naturalmente Ducas e i frammenti dell'Anonimo, ed è forse
allora che ha la prima intuizione (ma è la parola giusta?)
del fuoco completo.
Si attrezza un laboratorio, che probabilmente non si distingue dalle
numerose manifatture d'alchimisti della sua Toledo, e v'inizia una
serie pluridecennale d'esperienze, guidate e seguite da rigorose
riflessioni, di cui il trattato ci fornisce un resoconto minunuzioso.
Sostenuto nella sua prometeica impresa insieme dal ricordo e dalla
speranza, solo nelle lunghe notti, con muta pazienza esplora le
forme dei recipienti, foggiandoli a nido, a valva, a cratere. Incurante
del sonno e della fatica, dimentico della dolcezza e dell'amore,
nel suo chiuso antro di legno e di pietra, fra le antiche pergamene,
i libri, le bilance, i minerali e la forgia, Usinor insegue il barlume
di un sogno.
Davanti alla sua finestrella terrena passano rumorosi viandanti
e silenziose stagioni. Nelle rapide sere d'inverno, tra il chiaror
delle nevi, o nei pomeriggi fiammeggianti dell'estate, che si prolungano
sugli aridi campi intorno alla città, egli si spinge sulle
strade impervie del suo immaginoso desiderio, vola per cieli rarefatti
e desolati, cercando in un microcosmo lontano, tenue e inebriante
l'immagine congetturale del suo vigoroso e abbagliante macrocosmo.
Tenta lo zolfo, la malachite, il mogano e il quarzo, l'alcol e la
calcite, il mercurio, l'oro e l'acqua forte, lo smeraldo e l'acqua
regia, l'ambra, il pirosseno e lo zirconio.
Ed ecco, dopo anni di sforzi, in una notte di marzo che nella vita
del mondo è diversa da tutte le altre, la materia lungamente
sollecitata apre le piccole invisibili ampolle dove stava rinchiusa
la sua più intima essenza, e agli occhi increduli e commossi
del vecchio Usinor appare, come un pallido fiore azzurrino, la fiammella
esitante da sempre cercata. Egli la contempla a lungo, poi, con
un'intuizione che stupisce, annota: "Guardando quel piccolo
lume bluastro, oscillante e delicato, sentivo di aver violato un'intimità
segreta, di aver forzato meccanismi complessi e puntuali. Avevo
spezzato le piccole fiale resistenti in cui, ben divise, erano state
da sempre racchiuse sostanze che, forse, non avrebbero mai dovuto
mescolarsi. Dal loro contatto ora scaturiva quella fiammella, che
era dunque il segno esile equasi insignificante di un atto possente
che si consumava nella materia e che la natura aveva vietato. Provavo
un orgoglio smisurato e una profonda inquietudine". E più
avanti.' "Più di così la materia non avrebbe
potuto darmi e questo suo succo essenziale, intimo e proibito, ho
voluto chiamarlo il Fuoco Completo. Quella fiammella fredda e azzurrina
spingeva la mia anima a riflessioni lontane. Essa ardeva con un
crepitio quasi inavvertibile, illuminava appena, lividamente, il
noto paesaggio del laboratorio, rendendolo irriconoscibile Toccata
con un oggetto qualunque, essa vi aderiva in un contagio effimero
ma inestinguibile Questo ardere stabile, prolungato e silenzioso
pareva segnare una consunzione interna e duratura, che io avevo
innescato in un punto arbitrario anche se forse predestinato del
mondo e che ora lentamente si propagava. Era come se tutta la materia
avesse cominciato a uscire pian piano da quel piccolo strappo e
dilagasse, consumandosi febbrilmente in quella fiamma silenziosa".
Quanto le sue apprensioni fossero giustificate, Usinor poté
vederlo, tragicamente, di persona. La fiammella bluastra si estese
col tempo a tutto il laboratorio e nonostante la sua cautela egli
ne fu contagiato. Nei lunghi anni in cui si consumò il suo
martirio indolore, Usinor ebbe modo di dettare una teoria - giudicata
più tardi quasi perfetta - del fuoco completo, con la quale
concluse il suo trattato. Ne metteva in evidenza i pericoli e ne
indicava le meravigliose, esaltanti applicazioni; infine elencava
le precauzioni da adottare nel suo impiego.
Quello che accadde dopo si sa. Forse le cautele indicate dal vecchio
Usinor non erano sufficienti, forse i vantaggi dell'impiego del
fuoco completo e la sua conseguente diffusione rapidissima indussero
a una progressiva leggerezza. In numero sempre più grande
gli uomini ne furono contaminati e il contagio si trasmetteva dai
padri nei figli. Così, nel momento in cui il fuoco completo
metteva ai nostri piedi tutta la forza dell'Universo e ci prometteva
il fremito inesprimibile della divinità, esso anche minava
il nostro essere, fiaccava il nostro vigore, condannava la nostra
gente, il nostro Impero, ad una lenta degradazione.
Mi alzo dal letto d'ospedale dove attendo con dolorosa rassegnazione
la mia lontanissima fine, mi avvicino alla grande finestra e guardo
laggiù all'orizzonte le nostre fabbriche, le immense centrali
dove, in antri ciclopici, il fuoco completo lavora per darci l'energia
e il caldo di cui sempre più abbiamo bisogno, ora che la
nostra forza e il nostro calore di uomini ci stanno abbandonando.
In noi serpeggia lo stesso subdolo fiore azzurrino che fa ansimare
e ronzare quegli enormi opifici, neri contro il cielo brumoso del
tramonto come giganteschi animali che si siano gettati ad aspettare
la morte sulle rive di un gran fiume.
Pure, se penso a Usinor, non riesco a provare per lui se non una
pena dolcissima, una compassione struggente. Quell'uomo, che aprì
con la sua tenace ricerca le bolle velenose del nostro destino,
mi appare animato da un afflato presago, come se al di là
della sua stessa morte ci fosse l'ansia di un imperioso richiamo,
la promessa di un sogno immortale. Interrogando la materia con inquieta
pazienza, Usinor assaporava una dolcezza remota, seguiva una vaga
insegna di un azzurro tenue e affaticato. E nel fiore che apparve
ai suoi occhi smarriti e pensosi certo si estenuava un'ombra dell'azzurro
più pallido e rarefatto che solo occhi che lungamente abbiano
ricercato possono, a volte, scorgere contro il cielo della sera.
(Il fuoco completo, Faenza: Mobydick, 2000; per concessione
dell'Editore)
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