L'edificio della miniera, aggrappata al pendio ripidissimo del
monte, a 2500 metri circa, e già prossimo alle ultime vette;
è uno e composito: un paese formato di un'unica grande costruzione
che comprende, in numerosi piani sovrapposti e scaglionati, gli
uffici, i refettori, i dormitori, sale di ricreazione, infermeria,
l'erigenda chiesa, la bottega del barbiere: e i tetti dei sottostanti
fan da terrazzi elioterapici e panoramici ove sfogano i piani superiori.
Tutto ciò che costituisce, nella sua varietà organizzata
e microcosmica, la sede intima e pubblica di un gruppo umano è
qui riunito in un solo blocco, compatto e difeso verso l'esterno,
ben più di un borgo medioevale cinto di mura; dove le vie
son sostituite da corridoi più o meno stretti e tortuosi,
e, spesso, la luce del giorno da lampade elettriche perennemente
accese; e vi fa caldo quando fuori infuria il nembo e il gelo: il
rifugio umano dalle insidie esterne - simboleggiato da ogni focolare
- acquista, a quell'altezza, circondati da quel vuoto splendido
e vertiginoso, un'evidenza più commovente, un senso antico.
La bocca stessa della miniera (da cui mille cunicoli si diramano
poi per le viscere del monte) si spalanca, buia e gelida, a pianterreno,
a pochi passi dalla stazione della teleferica, e venta un fiato
d'Averno nel cuore di quel nido di uomini (o piuttosto brulicante
alveare o formicaio), che da tempo ha fugato e distrutto, come i
pini delle sottostanti foreste, così gli attigui e prospicienti
nidi d'aquile. Ed io ho sempre pensato, visitandolo ed errandovi
con diletto profondo, a un monastero tibetano; a uno di quei conventi
buddistici che sorgono a mille miglia da città e paesi, sugli
alti valichi dell'Imalaia - in cui l'ascesi nirvanica facesse luogo
a una sorta di religione plutonica e tellurica, al rito fremente
del lavoro occidentale; temperato, però, e come santificato
dall'altezza: nè ho a dirvi quanto questo miscuglio demiurgicamente
mi soddisfi.
La miniera è l'anima di Cogne che, mille metri a picco al
disotto, adagiata nella sua conca verde, la contempla come un santuario
eccelso: e ne vive quando, d'autunno, la gente cittadina scende
al basso; essa conferisce a questo luogo di villeggiatura una prerogativa,
che ha per me un fascino unico. Tutte le stazioni climatiche e balneari
sono, si sa, parassitarie per definizione: l'amenità e salubrità
del luogo, e basta, per viverci su, come belle donne dei loro vezzi;
qui, invece, ferve accanto al riposo degli uomini, che d'estate
vi salgono stanchi, una vita autonoma che non disturba affatto l'altra,
anzi - bizzarra ed estrosa come - direi che l'avvalori; e ne è
simbolo quel lieto rumore di carrelli, che continuamente salgono
e scendono per la teleferica: ardita e cordiale, discretissima invenzione,
solca essa, leggera e alta, la selva, e non l'ingombra; e a quando
a quando un rombo di mina punteggia il fruscio, a mezzogiorno un
breve ùlulo di sirena si disperde in echi sonori fra i monti,
tosto riassorbito dal silenzio che, dopo, ne è come stupefatto;
ed è tutto. Bella industria superna, sorrisa dal sole, gloriosa
fra i ghiacci, non discara a Dio! Fiera e nobile, se pur aspra vita,
quella della miniera; e così rara fra noi, da stupirci con
la sua singolarità e da evocar terre lontane; non pure l'Elba
o la Sardegna, che son cose marine, ma, che so, lo Spitzberg, la
Scandinavia boreale. Qui la miniera si sposa invece all'alpinismo,
e ne nasce un mondo magico due volte. Antico sforzo dell'uomo per
carpire alla terra i suoi tesori; sicchè da millenni la fantasia
l'ha ornato, ponendo a guardia delle caverne gnomi e draghi, inventando
tutta una popolazione sotterranea, infera e tellurica. Qui il mistero
minerale, più enigmatico ancora del vegetale e dell'animale,
ne circonda coi suoi muti sortilegi: solo l'acqua gronda e scroscia;
le viscere della terra (quelle che diventeranno forse un giorno
l'estremo tepido rifugio umano, quando la superficie del pianeta
sarà gelida e morta) si aprono davanti a noi per mille vie:
a seguitarle giù di lì è l'Inferno, e il Limbo,
e l'Averno, che infatti da una caverna in quel di Cuma era raggiunto;
oppure, se la vostra serietà scientifica sdegni tali antiche
fole, è il misterioso centro della terra: prossimo, nostro,
eppure ignoto a noi più dei mondi siderali.
Il minatore, col suo alleato e cugino, il boscaiuolo, è stirpe
antica e nobile quanto il pastore; e qui, su queste alture, l'uno
e l'altro s'incontrano e fiancheggiano, l'uomo dai neri e ignei
riflessi e l'uomo del bianco gregge e delle bianche nuvole, coevi
dei tempi mitici: e da quelli alla storia - a quei Salassi misteriosi
che qui al Lago Miserin, a due passi dalla miniera, convenivano
a riti druidici - è breve il passo!
"Quintino Sella aveva trovato nelle antiche gallerie della
miniera di Champ de Praz le traccie di una lavorazione antichissima,
ch'egli credeva preromana... Si comprende dunque che gli storici
latini abbiano descritto i Salassi come gente dedita al lavoro delle
miniere... Le miniere son divoratrici di boschi: in molti luoghi
il filone fu esaurito prima che la montagna avesse sacrificato tutte
le sue selve; in altri, e massime a Cogne, avvenne il contrario.
Arsi i boschi, la enorme lente di ossido di ferro, purissimo e abbondantissimo,
rimase inoperosa... Era forse nei decreti del destino che, al centro
della più alta chiostra di monti d'Italia, una imponente
massa del più perfetto fra i minerali di ferro dovesse rimanere
inoperoso per secoli, finchè non fossero maturati i tempi
che le permettessero di arricchire di sè, non la sua Valle,
non il suo Piemonte, ma l'Italia intera".[...]
(Filippo Burzio, Piemonte, Torino: Società Subalpina Editrice,
1938)
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