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Sezione 16: IL NOSTRO E L'ALTRUI MESTIERE
Primo Levi, un chimico scrittore

 

 
La lingua dei chimici I

Benché il loro mestiere sia piú recente che quello dei teologi, dei vignaioli o dei pescatori, anche i chimici, fin dalle loro origini, hanno sentito la necessità di dotarsi di un loro linguaggio specializzato. Tuttavia, a differenza dagli altri linguaggi di mestiere, quello dei chimici ha dovuto adattarsi ad un servizio che credo unico nel panorama degli infiniti gerghi specialistici: deve poter indicare con precisione, e possibilmente descrivere, piú di un milione di oggetti distinti, poiché tanti sono (e crescono ogni anno) i composti chimici rinvenuti in natura o costruiti per sintesi.
Ora, la chimica non è nata intera come Minerva, bensí faticosamente, attraverso le prove e gli errori pazienti ma ciechi di tre generazioni di chimici che parlavano lingue diverse e che spesso comunicavano fra loro solo per lettera; perciò, la chimica del secolo scorso si è andata consolidando attraverso una terribile confusione di linguaggi, i cui resti persistono nella chimica di oggi. Lasciamo da parte per ora la chimica inorganica, che ha problemi relativamente piú semplici e che merita un discorso a parte. Nella chimica organica, cioè nella chimica dei composti del carbonio, confluiscono almeno tre diversi modi di esprimersi.
Il piú antico è anche il piú snello e pittoresco; consiste nel dare ad ogni nuovo composto scoperto un nome di fantasia, che ricordi il prodotto naturale da cui esso è stato per la prima volta isolato: nomi come geraniale, carotene, lignina, asparagina, acido abietico, esprimono abbastanza bene (per noi neolatini!) l'origine della sostanza, ma non dicono niente sulla sua costituzione. E già piú oscura, anche per noi, l'adrenalina, che è stata chiamata cosí perché isolata dalle capsule surrenali ("ad renes", vicino ai reni). Anche la benzina trae il suo nome (italiano e tedesco: altre lingue la chiamano diversamente) da un prodotto naturale, ma attraverso una storia chimico-linguistica strana e ingarbugliata. All 'inizio c e il benzoino, resina profumata che da almeno duemila anni viene importata dalla Thailandia e da Sumatra, e che un tempo veniva usata non solo in profumeria, ma anche in terapia: non so con quale fondamento, forse solo in base al pericoloso ragionamento secondo cui le sostanze che hanno odore grato devono "far bene". Il commercio di questa resina, e di molte altre spezie, era in mano ai mercanti e navigatori arabi. Poiché lo spirito pubblicitario, ed insieme la protezione dei segreti commerciali, sono vecchi come la mercatura, gli arabi vendevano il prodotto sotto un nome arabo bello ma deliberatamente fuorviante: lo chiamavano "Luban Giaví", che significa "incenso di Giava", benché il benzoino non fosse propriamente un incenso, e benché esso non venisse affatto da Giava.
In Italia e in Francia la prima sillaba è stata confusa con l'articolo ed è caduta; quanto rimaneva del nome, cioè Bangiaví, è stato pronunciato e scritto in vari modi, fino a fissarsi in benzoé, beaujoin, benjoin, ed infine in benzoino. Passarono altri secoli, finché nel 1833 un chimico tedesco pensò per primo di sottoporre il benzoino alla distillazione secca, cioè di scaldarlo fortemente in assenza d'acqua, in una di quelle storte che ancora oggi compaiono qua e là come simboli araldici della chimica, benché i chimici non le usino piú. Si riteneva a quel tempo, piú o meno consapevolmente, che questo trattamento servisse a separare la parte volatile, nobile, "essenziale" di una sostanza (non per niente la benzina si chiama tuttora "essence" in francese) dal residuo inerte che rimaneva in fondo alla storta: che si trattasse insomma di una separazione di un'anima da un corpo. In molte lingue, infatti, la parola "spirito" designa sia l'anima, sia l'alcool e altri liquidi che evaporano facilmente.
Il chimico tedesco ottenne cosí l'"anima", l'"essenza" del benzoino, e la chiamò benzina: in effetti era il prodotto che noi oggi chiamiamo benzene, ma con i mezzi analitici del tempo non era facile distinguerlo dalla frazione del petrolio che ha all'incirca lo stesso punto di distillazione e che oggi si chiama benzina; nei primi decenni del secolo scorso i due nomi e i due prodotti erano sostanzialmente intercambiabili, e del resto ancora oggi il benzene potrebbe essere un buon surrogato della benzina se non fosse cosí tossico. Molte automobili partigiane hanno viaggiato a benzene, o con altri carburanti anche piú esotici e pericolosi, senza danno evidente. E solo una curiosa coincidenza che si chiamasse Benz l'uomo che nel 1885 costruí il primo motore a benzina efficiente; a meno che il suo nome (che compare tuttora nella ragione sociale della Mercedes) non abbia contribuito alla vocazione di inventore dell'ingegner Karl Benz.
Ancora da una distillazione secca, e dall'intento di isolare l'essenza, lo spirito del legno, prende inizio la storia del nome del metano. Distillando a secco il legno si ottengono liquidi complessi, assai diversi a seconda del legno da cui si parte, e comunque costituiti in buona parte da acqua. Essi però contengono spesso una piccola percentuale di quello che oggi si chiama alcool metilico.
Un altro chimico, questa volta francese, del secolo scorso purificò questo "spirito di legno", ne descrisse le proprietà, e si accorse che assomigliava molto al vecchio e noto "spirito di vino": aveva aroma e sapore anche piú gradevoli di quest'ultimo, ma se consumato anche in piccola quantità conduceva alla cecità permanente, e qui si conferma che il grato odore è una pessima guida. Probabilmente con l'aiuto di qualche collega grecista, tradusse malamente "spirito di legno" in "methy hyle", perché in greco hyle è il legno, e methy indica genericamente i liquidi inebrianti (il vino, l'idromele eccetera). Questo "methy" compare anche nell'antichissimo nome dell'ametista: non a causa del suo colore violaceo, ma perché si riteneva che questa gemma avesse la proprietà di combattere l'ubriachezza.
Da "methy hyle" si trasse "alcool metilico", e da questo il nome del metano, che gli è chimicamente vicino, in base ad un primo rudimentale accordo fra i chimici di vari Paesi, secondo cui si doveva riservare la desinenza -ano agli idrocarburi saturi. Al metano hanno fatto seguito l'etano, dalla radice di "etere"; il propano, distorcendo un poco il greco "protos", cioè "primo"; e il butano, dalla radice di "butirro", che a sua volta trae origine da una parola greca che vuol dire "ricotta di vacca". Gli altri idrocarburi saturi, pentano, esano, eptano e cosí via, sono stati battezzati con meno fantasia ricorrendo ai numerali greci che corrispondono al numero dei rispettivi atomi di carbonio.
Un secondo linguaggio chimico, meno fantasioso ma piú espressivo, è quello costituito dalle cosiddette formule gregge. Dire che lo zucchero comune è C12H22011, o che il vecchio piramidone, caro ai medici condotti, è C13H170N3, non ci indica nulla sull'origine né sugli usi delle due sostanze, ma ne dà l'inventano. E', appunto, un linguaggio greggio, incompleto: viene a dire che per costruire una molecola di piramidone ci vogliono tredici atomi di carbonio, diciassette d'idrogeno, uno d'ossigeno e tre di azoto, ma non dice niente sull'ordine o sulla struttura in cui quegli atomi sono legati insieme. Insomma, tutto va come se un tipografo estraesse dalla cassetta le lettere c, e, i, o, p, r, s, s, e pretendesse di esprimere cosi la parola cipresso: il lettore non iniziato, o non aiutato dal contesto, potrebbe anche "leggere" processi o scopersi o chissà quale altro anagramma. E' una scrittura sommaria, che ha il solo pregio (tipografico appunto) di stare bene nelle righe dello stampato.
Il terzo linguaggio ha tutti i vantaggi, e il solo svantaggio dovuto al fatto che le sue "parole" nelle righe dello stampato comune non ci stanno. Tende a (o pretende di) darci il ritratto, l'immagine del minuscolo edificio molecolare: ha rinunciato a buona parte del simbolismo che è proprio di tutti i linguaggi, ed è regredito all'illustrazione, alla pittografia. E come se, invece della parola cipresso, si stampasse o disegnasse l'immagine del cipresso. Il sistema fa tornare alla mente quell'accademico del paese dei Balnibarbi di cui parla Swift nei Viaggi di Gulliver: secondo lui, si doveva ragionare senza parlare, e in luogo delle parole egli proponeva di avere sottomano "ogni cosa su cui cadeva l'argomento del discorso", cioè quello che oggi si chiama il "referente": un anello se si parla di anelli, una vacca se si parla di vacche, e cosi via. In questo modo, argomentava l'accademico, "tutte le nazioni avrebbero potuto facilmente intendersi fra loro". Non c'è dubbio che il linguaggio oggettivo, anzi oggettuale, dei Balnibarbi, e le formule strutturali dei chimici, si avvicinano alla perfezione sotto l'aspetto della comprensibilità e dell'internazionalità, ma entrambi presentano l'inconveniente dell'ingombro, come ben sanno gli infelici compositori dei testi di chimica organica.
Naturalmente, a dispetto delle sue pretese ritrattistiche, e a differenza dal Balnibarbo, il linguaggio delle formule di struttura, per il fatto stesso di essere un vero linguaggio, è rimasto parzialmente simbolico. In primo luogo, perché i suoi ritratti non sono in grandezza naturale, bensi nella "scala" (cioè nell'enorme ingrandimento) di circa uno a cento milioni. Poi, perché in luogo della forma degli atomi essi contengono il loro simbolo grafico, cioè l'abbreviazione del loro nome, e perché fra gli atomi stessi si dimostra utile introdurre, e rappresentare con trattini simbolici, le forze che tengono insieme gli atomi stessi.
Infine, per il motivo fondainentale, e valido per tutti i ritratti, che l'oggetto rappresentato ha in generale uno spessore, ha una struttura a tre dimensioni, mentre il ritratto è piatto perché è piatta la pagina su cui deve essere stampato. Eppure, nonostante tutte queste limitazioni, se si confrontano questi schemi convenzionali con i ritratti "veri", quasi fotografici, che da qualche decennio si riesce a fare con tecniche sottili, si rimane colpiti dalla loro somiglianza: le molecole-parole, i disegnini ricavati dal ragionamento e dall'esperimento, sono proprio assai simili alle particelle ultime della materia che gli antichi atomisti avevano intuito vedendo i granelli di polvere che danzavano in un raggio di sole.

Primo Levi, Il sistema periodico,Torino: Einaudi, 1975, pp. 121-126.

 

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